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Non siamo nel 1999. Siamo nel 1987

Perché qualsiasi rendimento sotto l’11% ti fa perdere denaro (in termini reali)

L’illusione del "troppo tardi"

Da mesi, chi osserva i mercati si interroga se questo ciclo rialzista sia ormai arrivato alla fine.

Dopo un guadagno di quasi il novanta per cento dai minimi dell’ottobre 2022, è facile pensare che siamo in pieno eccesso, nel cuore di una bolla destinata a scoppiare. Ma i numeri raccontano un’altra storia. La durata media di un bull market supera i cinque anni e porta in media a guadagni vicini al duecento per cento.

L’attuale, con i suoi tre anni scarsi di vita e un guadagno inferiore alla metà di quella soglia, non ha ancora esaurito la propria energia. Se guardiamo ai precedenti, tra i sette bull market che si sono estesi oltre il terzo anno tutti hanno registrato ulteriori rialzi nei dodici mesi successivi, e sette su dieci sono durati più di tre anni. Non è solo una questione di percentuali: è la natura del ciclo che conta. L’attuale fase è stata alimentata da produttività, margini in espansione e crescita degli utili, sostenuti da una delle forze tecnologiche più trasformative della nostra epoca. Ed è questa la differenza sostanziale rispetto ai cicli del passato.

Molti paragonano il momento attuale al 1999, come se fossimo alla vigilia di una nuova bolla tecnologica, ma è un’analogia superficiale. Il mercato di allora era spinto da storie prive di ricavi, da capitalizzazioni costruite sulla speranza. Oggi la tecnologia genera trilioni di dollari di fatturato reale, investe, costruisce, espande capacità produttiva, assume, e soprattutto guida una nuova fase di spesa in conto capitale. Non siamo in una bolla di carta, ma nel cuore di una trasformazione industriale. Chi confonde questo con il 1999, confonde due epoche che non si assomigliano in nulla.

Il rally partito in aprile è stato uno dei più forti degli ultimi decenni, paragonabile per potenza a quelli che, storicamente, seguono i minimi dei bear market recessivi. Il mercato si sta comportando come se fosse appena uscito da una recessione profonda, anche se una recessione, di fatto, non c’è mai stata. È questa la percezione che conta: non quella dei commentatori, ma quella degli investitori reali che muovono il capitale. Il mercato, in sostanza, sta scontando una ripartenza in un’economia che è già in piena occupazione. E se un mercato prezza una ripartenza quando l’economia non ha mai rallentato davvero, significa che la spinta sottostante è molto più forte di quanto appaia.

Le condizioni tecniche confermano la tesi: l’ampiezza di mercato, pur deteriorata nel breve periodo, resta lontana dai collassi che precedono le fasi terminali dei bull market; le valutazioni, per quanto alte secondo gli standard, non segnalano euforia estrema; gli utili aziendali continuano ad espandersi; la curva dei tassi resta invertita, ma l’economia non ha mostrato il rallentamento che solitamente ne consegue; e, soprattutto, le condizioni finanziarie globali stanno tornando ad allentarsi, non a restringersi. Tutto questo racconta un ciclo maturo, ma non esausto. Un ciclo che, in termini probabilistici, ha ancora spazio per correre.

Eppure, molti restano fermi. Aspettano la recessione come si attende un temporale annunciato da anni, convinti che basti la sua inevitabilità teorica per mettersi al riparo. Ma la storia dei mercati è piena di chi ha smesso di investire troppo presto e ha pagato quella prudenza con anni di occasioni perdute. Il 2015, il 2018, il 2019: correzioni sì, ma non inversioni. Chi in quei momenti ha chiuso le posizioni ha perso molto più di quanto abbia guadagnato chi è entrato tardi ma è rimasto dentro. Il mercato può correggere, ma non per questo smette di salire. Le fasi di consolidamento non annunciano la fine di un ciclo: lo rafforzano.

Il paragone corretto non è con il 1999, ma con la seconda metà degli anni ottanta. Allora, dopo il crollo del 1987, molti credettero che il mercato fosse finito. Eppure, quello fu solo l’inizio di un’espansione durata quasi vent’anni, sostenuta dalla prima vera rivoluzione tecnologica: l’arrivo del personal computer. Quando nel 1984 solo il 21 per cento degli americani usava un computer e appena il 20 per cento delle famiglie ne possedeva uno, nessuno poteva immaginare che in meno di vent’anni quel numero sarebbe salito oltre il cinquanta per cento.

Eppure, fu proprio quel processo di adozione lenta e progressiva a generare una crescita senza precedenti.

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Oggi siamo nello stesso punto di quel ciclo: la fase di adozione iniziale.

Solo il 12–15 per cento della popolazione utilizza regolarmente strumenti di intelligenza artificiale. Significa che l’AI non è ancora una tecnologia di massa: è nelle mani di sviluppatori, aziende pionieristiche e early adopters. È come il 1985 dei computer, non il 1999 di Internet. Allora il potenziale era appena intravisto; oggi lo è di nuovo, ma su scala infinitamente più ampia. L’AI non è semplicemente una nuova applicazione: è un’infrastruttura di trasformazione economica. È la convergenza di cloud, semiconduttori, robotica, energia, software e dati, un intreccio che moltiplica la produttività reale e cambia la struttura dei margini aziendali.

Chi parla di bolla dimentica che ogni rivoluzione industriale comincia così: con pochi che capiscono, molti che deridono e una minoranza che agisce. L’elettrificazione del mondo tra il 1900 e il 1920 aumentò la produttività americana del cinquanta per cento e ridefinì interi settori. Internet, tra il 1995 e il 2010, triplicò la capitalizzazione dei mercati e creò la nuova economia digitale. Oggi l’intelligenza artificiale è all’inizio dello stesso processo, ma con un effetto moltiplicatore ancora più potente.

Nel frattempo, la struttura stessa dei mercati è cambiata. Negli anni novanta, l’economia americana era ancora dominata dalla manifattura; oggi quel settore rappresenta meno del dieci per cento dell’S&P 500. La tecnologia, invece, pesa oltre il trenta per cento e continua ad aumentare.

Non è un’anomalia: è il riflesso di un’economia post-industriale in cui la creazione di valore non dipende più dai cicli delle fabbriche, ma dall’efficienza dei sistemi. In Germania, SAP rappresenta da sola più dell’undici per cento del DAX; in Francia, LVMH vale circa il quindici per cento del CAC 40; in Giappone, Toyota pesa oltre il dieci per cento del Nikkei; nel Regno Unito, AstraZeneca e Shell insieme superano il venti per cento del FTSE.

Che le big tech rappresentino il trenta per cento dell’S&P non è quindi distorsione, ma proporzione naturale del capitalismo moderno.

Il falso parallelo con il 1999

E se il ciclo dell’AI durerà davvero dieci o quindici anni, allora siamo solo all’inizio. I mercati non anticipano la fine di una rivoluzione, ne anticipano la maturità. E questa, oggi, è ancora lontana.

Chi continua a paragonare il presente al 1999 non capisce che la differenza fondamentale non è tecnologica, ma strutturale. Allora il capitale era speculativo, oggi è produttivo. Negli anni novanta il capitale finanziario inseguiva storie, oggi costruisce infrastrutture. Allora si raccoglievano fondi per idee che non generavano utili, oggi si finanziano tecnologie che creano valore, ottimizzano catene produttive, riducono sprechi, trasformano interi settori.

L’intelligenza artificiale non è una moda, è un moltiplicatore. Ogni euro investito in AI produce ricadute in tutti i comparti dell’economia reale: energia, sanità, industria, agricoltura, trasporti, finanza. È come l’elettricità: non un settore, ma la base su cui ogni altro settore poggerà.

Per capire dove siamo, basta guardare la cronologia dell’innovazione. Il personal computer portò la potenza di calcolo sui tavoli delle aziende. Internet collegò le informazioni. Il cloud le rese scalabili. L’intelligenza artificiale ora le rende intelligenti. È una linea continua, non una sequenza di mode.

Ogni passaggio ha generato un nuovo ciclo di crescita, e ogni ciclo ha premiato chi ha saputo riconoscere la natura profonda del cambiamento. Nel 1983, chi comprese che il PC non era un gadget ma un nuovo strumento di produttività, costruì fortune. Nel 1995, chi capì che Internet avrebbe cambiato la distribuzione e la comunicazione, fondò imperi. Oggi, nel 2025, chi capisce che l’AI non è un’applicazione ma un’infrastruttura, avrà in mano il prossimo decennio.

Ciò che rende questo ciclo diverso è la simultaneità: per la prima volta nella storia, più rivoluzioni tecnologiche convergono nello stesso momento. L’AI alimenta la robotica, la robotica crea dati per l’AI, i semiconduttori rendono possibile entrambe, l’energia pulita le sostiene, il cloud le connette. È un ecosistema di progresso che si autoalimenta. E i mercati lo percepiscono molto meglio degli analisti che lo commentano. Quando la storia economica cambierà capitolo, ci si accorgerà che il turning point non era il 2021 o il 2022, ma proprio adesso.

La maggior parte delle persone non riesce a riconoscere un cambio di paradigma mentre avviene, perché la mente umana è lineare e i cicli economici no.

Si cerca di trovare somiglianze per avere conforto: “è come nel 2000”, “è come nel 2008”. Ma nessun ciclo si ripete uguale, perché le variabili che lo compongono cambiano. Negli anni ottanta il debito privato era contenuto e il leverage era limitato; oggi la leva è sistemica ma distribuita. Negli anni novanta la manifattura era dominante, oggi la conoscenza è la materia prima. I mercati si adattano, e chi resta legato al passato perde la traiettoria.

Guardare i mercati con la lente sbagliata porta sempre alle stesse conclusioni: prudenza, attesa, paura. Ma la prudenza cieca è solo una forma elegante di rinuncia. È come restare alla finestra a guardare una tempesta che non arriva mai. Ogni giorno di attesa è un giorno in meno di rendimento composto, un’occasione bruciata nella curva dell’interesse. Ed è per questo che l’unica vera decisione oggi non è se investire, ma come farlo, con quale visione e con quale disciplina.

Noi non cerchiamo di indovinare i top o i bottom.

Usiamo la storia, i dati, la logica dei cicli. I nostri modelli — THÉMA per il lungo termine e R.A.P.T.OR. per la gestione tattica — nascono da un principio semplice ma spietato: la realtà non si discute, si misura. THÉMA cavalca la tendenza e la tesi di fondo, R.A.P.T.OR. sfrutta i cicli rialzisti all’interno del trend di lungo periodo. Entrambi nascono dallo stesso approccio: leggere la struttura del mercato, non le emozioni. È così che si ottengono risultati che non dipendono dal caso, ma dal metodo. Ed è così che, mentre molti guardano il passato con nostalgia o il futuro con paura, noi lo attraversiamo con lucidità.

Il mondo è entrato nella quarta rivoluzione industriale.

Non è uno slogan, è un fatto. I megatrend — demografia, energia, digitalizzazione, intelligenza artificiale, sicurezza — sono linee di forza che si dispiegano su decenni. Non puoi fermarle, puoi solo decidere se parteciparvi o meno. La maggior parte delle persone arriva quando il gioco è già finito: compra quando tutto è evidente e vende quando la paura è massima. Ma la vera ricchezza nasce dall’anticipo, non dalla reazione. Oggi l’anticipo è capire che la curva dell’adozione dell’AI è ancora al 15 per cento. E che da qui a quando sarà all’80, il mercato comporrà la sua fase esponenziale.

Ray Kurzweil lo chiama “singolarità”: il momento in cui l’intelligenza artificiale e l’intelligenza umana si fonderanno, accelerando la capacità di calcolo e di decisione oltre ogni limite precedente. Non serve condividere la sua visione per riconoscere la direzione. La produttività globale sta entrando in un’era di moltiplicazione, non di incremento lineare. Quando le macchine lavorano con noi, non per noi, i margini esplodono. È questo il vero motore dei mercati.

E sullo sfondo, la dinamica monetaria resta il carburante silenzioso di tutto. La liquidità globale, come una marea che nessuno può fermare, continua a salire. Anche quando la Federal Reserve stringe, la Banca Centrale Cinese o la Bank of England compensano. È il sistema che si autoregola: quando un’area rallenta, un’altra espande.

Ed è per questo che la correlazione tra l’indice Nasdaq e la liquidità globale è del novantasei per cento, quella con Bitcoin del novanta. Non esiste oggi variabile più determinante. Ogni volta che la liquidità aumenta, i mercati si rialzano. Ogni volta che cala, consolidano. Ma il trend di fondo resta ascendente, perché il debito mondiale lo impone.

I debiti vanno rifinanziati, e per rifinanziarli serve denaro. È un meccanismo che si autoalimenta e che impedisce ai cicli di contrarsi per troppo tempo. È per questo che anche nei momenti di paura, quando sembra che tutto debba crollare, il sistema si espande di nuovo. È un ciclo di sopravvivenza, non di euforia. È per questo che chi parla di bolla ignora la natura profonda dei mercati moderni: sono organismi che crescono per necessità, non per capriccio.

Ecco perché, guardando avanti, la probabilità di un crollo simile al 1999 o al 2008 è minima. Potrà esserci una correzione, certo, ma sarà un episodio tattico, non un evento epocale. Le condizioni finanziarie globali non lo permettono. La struttura del debito, l’allungamento delle scadenze, la quantità di capitale in eccesso che cerca rendimento: tutto spinge nella stessa direzione. E chi sa leggere questi segnali sa che il tempo lavora a favore di chi resta investito.

Per molti sarà difficile accettarlo, perché va contro la narrativa dominante della prudenza. Ma la prudenza vera non è stare fermi: è muoversi in anticipo, con metodo. È costruire posizioni quando gli altri dubitano, perché quando smetteranno di dubitare sarà troppo tardi. È in questa finestra che si costruiscono le fortune e si misura la differenza tra chi interpreta il mercato e chi lo subisce.

La verità invisibile della liquidità: il denominator effect

Perché qualsiasi rendimento sotto l’11% ti fa perdere denaro (in termini reali)

Dal 2008 a oggi, la liquidità globale — cioè la quantità totale di moneta e credito nel sistema finanziario mondiale — è cresciuta a un ritmo medio di circa l’8% annuo (fonte: GMI Total Liquidity Index, Global Macro Investor). Questo significa che ogni anno l’offerta di moneta aumenta dell’8%, diluendo progressivamente il valore di ogni singola unità di valuta. A questo 8% di svalutazione strutturale si aggiunge oggi un’inflazione media globale intorno al 3% annuo (dati OCSE e FMI, 2025). Sommando le due componenti — 8% di svalutazione + 3% di inflazione = 11% di erosione reale del potere d’acquisto ogni anno.

In altre parole, anche se i prezzi al consumo crescono “solo” del 3%, il valore reale della moneta e dei risparmi si riduce di oltre il 10% annuo, perché il sistema finanziario continua a espandere la base monetaria più velocemente della crescita economica. Ed è proprio questa dinamica a spiegare perché un rendimento inferiore all’11% annuo non ti arricchisce: ti mantiene fermo o, più spesso, ti impoverisce in termini reali.

È qui che entra in gioco un meccanismo quasi mai compreso, ma essenziale per leggere i mercati contemporanei: il denominator effect. Quando la liquidità cresce strutturalmente a ritmi dell’8–11% l’anno, il “P” del P/E Ratio — il prezzo — si muove più velocemente dell’“E”, cioè degli utili. Non perché le aziende diventino improvvisamente più redditizie, ma perché la moneta in cui misuri quei valori perde costantemente potere d’acquisto. Il risultato è che i multipli di mercato (P/E) si espandono per pura aritmetica: il numeratore riflette il debasement, mentre il denominatore resta ancorato alla crescita reale del PIL e degli utili.

Questo significa che i P/E tendono a raddoppiare ogni otto anni circa. Non è un segnale di euforia, ma la conseguenza naturale di un sistema monetario che si espande più velocemente dell’economia reale. È la matematica a farlo, non la psicologia. E confondere i due piani — credere che l’aumento dei multipli equivalga a una bolla — è l’errore più comune e costoso che un investitore possa commettere.

Lo stesso principio si riflette anche sugli asset più sensibili alla liquidità globale, come Bitcoin.

Oggi il Nasdaq si trova a meno di una deviazione standard sopra il suo trend di lungo periodo, ben lontano dai picchi speculativi che in passato hanno superato abbondantemente le due deviazioni standard andando in parabolico. In altre parole: non siamo in un eccesso di mercato, ma ancora in una fase di normalità statistica.

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È un dato che rafforza la tesi principale di tutto questo ciclo: la liquidità globale è in espansione, ma non è ancora stata pienamente assorbita dagli asset rischiosi.

Quando il ciclo manifatturiero (ISM) tornerà a espandersi, e la nuova ondata di credito inizierà a fluire verso l’economia reale, sarà lì che vedremo il vero impulso di prezzo. Non per “mania” speculativa, ma per effetto matematico della liquidità che si trasforma in capitalizzazione. È sempre stato così, e la storia dei mercati non mostra eccezioni: ogni fase di reflazione monetaria produce un’espansione di multipli.

La differenza è che oggi, per la prima volta, questa espansione si muove in parallelo con una rivoluzione tecnologica reale, non immaginaria.

È un dato che rafforza la tesi principale di tutto questo ciclo: la liquidità globale è in espansione, ma non è ancora stata pienamente assorbita dagli asset rischiosi.

Quando il ciclo manifatturiero (ISM) tornerà a espandersi, e la nuova ondata di credito inizierà a fluire verso l’economia reale, sarà lì che vedremo il vero impulso di prezzo. Non per “mania” speculativa, ma per effetto matematico della liquidità che si trasforma in capitalizzazione. È sempre stato così, e la storia dei mercati non mostra eccezioni: ogni fase di reflazione monetaria produce un’espansione di multipli. La differenza è che oggi, per la prima volta, questa espansione si muove in parallelo con una rivoluzione tecnologica reale, non immaginaria.

In conclusione per proteggere il capitale e generare vera ricchezza, i rendimenti devono superare l’11% annuo — la soglia che separa chi batte la realtà macroeconomica da chi la subisce. È la linea invisibile che divide chi osserva i mercati da chi li attraversa con metodo. Noi lavoriamo proprio lì: nel punto in cui i dati diventano decisione, e la visione si traduce in rendimento. Chi sceglie di farlo con noi non sta cercando un miracolo, ma un metodo. E oggi, più che mai, il metodo è l’unica forma di protezione reale.

Siamo nel 1987, non nel 1999

Il nostro compito è far vedere quello che gli altri non riescono ancora a mettere a fuoco.

Siamo nel momento in cui il mondo cambia direzione e la maggior parte delle persone ancora non lo sa. E chi lo capisce oggi può scegliere: restare spettatore o diventare protagonista. I numeri, la storia, la logica: tutto porta alla stessa conclusione. Questo bull market non è alla fine. È all’inizio del suo percorso. E la parte più interessante, quella in cui il capitale intelligente costruisce valore reale, sta cominciando ora.

Se guardiamo la storia con lucidità, vediamo sempre lo stesso schema.

Le persone pensano di imparare dal passato, ma non imparano mai davvero. I mercati salgono, scendono, poi ripartono. Ogni ciclo ha i suoi scettici, i suoi entusiasti, i suoi opportunisti. Ma solo pochi attraversano l’intero percorso con coerenza. Sono quelli che costruiscono la vera ricchezza, non solo economica, ma di visione. Perché comprendono che il mercato non è una sequenza di numeri, ma un organismo vivente che riflette il grado di fiducia collettiva nel futuro.

E oggi, malgrado le paure, la fiducia nel futuro è più forte che mai. Le aziende innovano, gli Stati investono, i capitali si muovono verso il rischio produttivo, non verso la rendita. È un segnale potente. Significa che siamo nel cuore di una fase di costruzione, non di distruzione.

E quando la costruzione prevale, i mercati salgono. Sempre.

Chi è già con noi lo sa. Sa che ogni ribasso è un’occasione di accumulo, non un segnale di fuga. Sa che il rischio vero è restare fermi. Sa che la differenza tra il successo e l’irrilevanza sta tutta nella capacità di riconoscere un ciclo per quello che è. Noi lo vediamo chiaramente. E chi si unisce a noi ora, prima che la massa lo capisca, farà parte della minoranza che raccoglierà i frutti di questo decennio.

Perché la verità è semplice: non siamo in una bolla, siamo in un’espansione. Non stiamo rivivendo il 1999, ma i tardi anni ottanta. Non siamo alla fine di un ciclo, ma alla sua maturazione iniziale. E chi oggi sa leggerlo, domani non dovrà più giustificare nulla: avrà solo da contare i risultati.

Molti oggi interpretano i numeri come vogliono. C’è chi considera il rialzo iniziato nel 2009 come un unico ciclo ininterrotto, lungo ormai sedici anni. Ma questa lettura ignora le regole della matematica dei mercati.

Un bear market non è un’opinione: è una discesa di almeno il venti per cento dai massimi. E in questi anni ne abbiamo avuti diversi, profondi e documentabili. Il 2020, ad esempio, è stato un vero mercato ribassista, con una contrazione di oltre il trentatré per cento della margin debt, una delle più violente da decenni. Quel ribasso ha azzerato l’eccesso, ripulito la leva, eliminato la psicologia euforica, proprio come fa ogni grande reset di ciclo. Ecco perché parlare di un bull market continuo dal 2009 è semplicemente falso, o in malafede, o privo di cognizione di causa. I cicli si misurano con la matematica, non con la narrazione.

Oggi il margin debt è intorno al trentacinque per cento sopra i livelli dell’anno precedente: molto meno dell’ottanta per cento del 1999, del sessantatre per cento del 2007 o del settantadue per cento del 2021.

Il valore medio nei momenti positivi storici è intorno al quarantanove per cento, e il dato complessivo lungo l’intero arco ciclico si ferma a circa il venticinque. Siamo sotto la media dei periodi di euforia, appena sopra la media totale: uno scenario perfettamente coerente con le fasi iniziali di un ciclo, non con la sua fine.

Anche la partecipazione istituzionale e i flussi azionari confermano questo quadro: positivi, ma non parossistici; convinti, ma non isterici. Le survey sul sentiment mostrano più ottimisti che pessimisti, ma lontano dagli eccessi che storicamente anticipano i top. L’attività sulle opzioni è elevata, sì, ma non estrema. E i dati di fondo dicono una cosa semplice: la paura di essere dentro è ancora più forte della paura di restare fuori.

Non è una condizione di bolla: è la normalità di una ripartenza che il mercato ha già accettato, ma che gran parte degli investitori rifiuta emotivamente.

Parlare oggi di un “bull market che dura da 16 anni”, dopo un margin debt crollato del 33% nel 2022 — uno dei soli quattro casi simili dal 1961, insieme ai grandi ribassi del 1972, 1999 e 2007 — è semplicemente privo di fondamento, intellettualmente disonesto e concettualmente miope.

La differenza la fa chi capisce che la paura non protegge il capitale, lo immobilizza. Larry Fink, CEO di BlackRock, lo ha detto con una chiarezza che non lascia spazio a equivoci: non si tratta di capire se ci sia una bolla nella tecnologia o nelle criptovalute, ma di restare nel mercato lungo il ciclo rialzista. In un’epoca di trasformazioni così rapide, essere sottoinvestiti è molto più rischioso che essere troppo esposti.

Il paradosso è che i più grandi errori non si commettono per eccesso di entusiasmo, ma per eccesso di prudenza.
L’entusiasmo viene spesso sopravvalutato: si tende a pensare che l’euforia sia la norma, ma in realtà è un’eccezione rarissima.
Nella maggior parte dei casi, gli investitori non sbagliano perché corrono troppo, ma perché non osano abbastanza.

Mentre si attende il momento perfetto per entrare, il mercato è già avanti. È accaduto a febbraio, è accaduto ad aprile: chi è rimasto fuori allora oggi guarda da lontano un rally che non ha smesso di premiare chi è rimasto coerente con la tesi di fondo. E la tesi è questa: siamo solo all’inizio del ciclo. Come negli anni ottanta, la tecnologia sta ridisegnando la struttura economica e industriale. Come allora, la produttività è il motore invisibile che alimenta i margini.

Ma, diversamente da allora, oggi abbiamo un moltiplicatore esponenziale: l’intelligenza artificiale, il cloud, l’energia, la robotica, la blockchain, la tokenizzazione di Wall Street e i semiconduttori non avanzano in modo isolato, ma si potenziano a vicenda. È un ciclo sinergico e non lineare, dove ogni innovazione amplifica il valore dell’altra.

È ciò che in economia delle reti viene definito legge di Metcalfe: il valore di un sistema non cresce in proporzione al numero dei suoi nodi, ma al quadrato delle connessioni che li uniscono. Più le tecnologie si interconnettono, più il sistema accelera. Ed è per questo che questa rivoluzione sarà più rapida, più profonda e più remunerativa di qualunque altra nella storia moderna.

Il grande bull market degli anni novanta non nacque nel 1995, né nel 1990. Nacque nel 1980, quando il personal computer iniziò a entrare nelle aziende e poi nelle case. All’inizio fu solo un esperimento di pochi. Nel 1987 solo un quinto delle famiglie americane possedeva un computer. Nel 1990 erano il quindici per cento, nel 1997 il trentacinque, nel 2000 più della metà.

Oggi l’intelligenza artificiale è esattamente dove il PC era nel 1985: una novità affascinante per chi la conosce, ma ancora lontana dall’essere ubiqua. Quando la sua adozione reale supererà il cinquanta per cento — come accadde ai computer intorno al 2000 e a Internet poco dopo — entreremo nella fase di maturità del ciclo. E forse nemmeno allora sarà davvero al suo apice. Ma di certo, non prima.

Se guardiamo alla storia della tecnologia, è evidente dove siamo nel ciclo. Nel 1990 solo il 15% delle famiglie americane possedeva un computer; nel 1997 erano il 35%, e soltanto nel 2000 si superò la soglia del 50%, entrando nella fase di maturità.

I dati provengono dal Bureau of Labor Statistics (“Computer Ownership Up Sharply in the 1990s”, aprile 1999), che mostrano come negli anni Novanta l’adozione del computer fosse ancora concentrata nelle fasce più istruite: tra i laureati si passava dal 24% al 56%, tra chi aveva frequentato un master dal 37% al 66%, mentre la media nazionale restava sotto il 40%. In altre parole, nel 1990 la tecnologia era ancora nelle mani di una minoranza qualificata, non della popolazione di massa.

È esattamente la situazione in cui si trova oggi l’intelligenza artificiale: appena il 12–15% della popolazione la utilizza regolarmente, e la concentrazione è ancora nelle aziende più grandi, nei professionisti e negli sviluppatori. Per questo non siamo nel 1999 dell’AI, quando tutto era già esploso, ma nel suo 1987–1990, quando la curva di adozione stava appena iniziando a salire ma non aveva ancora raggiunto la massa critica.

Basta guardare i dati per capire quanto sia superficiale paragonare il presente al 1999 — o anche solo al 1995. Secondo l’U.S. Census Bureau (“Computers and Internet Access in the Home: 1984–2000”), nel 1984 solo l’8% delle famiglie americane aveva un computer; nel 1989 il 15%; nel 1993 il 23%; e solo nel 2000 — sedici anni dopo — si superò il 50%.

Nel 1995, anno in cui molti amano collocare il presunto “inizio del boom tecnologico”, meno di una casa su quattro possedeva un computer e quasi nessuna era connessa a Internet. Il 1999, poi, segnò la fase di saturazione: oltre il 40% delle famiglie aveva già un PC, la rete si stava diffondendo rapidamente e i mercati avevano trasformato quella crescita in euforia.

Oggi, invece, solo il 12–15% della popolazione utilizza regolarmente strumenti di intelligenza artificiale. Questo significa che siamo molto prima di quella curva, più vicini alla fine degli anni Ottanta che alla fine dei Novanta. L’AI oggi è dove il personal computer era nel 1987: una tecnologia potente, ma ancora confinata tra pionieri, sviluppatori e early adopters.

Pensare di essere nel 1999 non è solo prematuro, è statisticamente assurdo. Perché i cicli tecnologici non si misurano con le emozioni o con le opinioni, ma con le percentuali di adozione. E i numeri, come sempre, non mentono. Chi capisce dove siamo — e agisce adesso — non sta “scommettendo sul futuro”, ma sta entrando nella fase più redditizia e trasformativa del ciclo, quella che costruisce valore prima che il mondo si accorga di cosa sta realmente accadendo.

CAPEX isn’t just a tech story anymore: Il ritorno del capitale reale

Per questo motivo la narrazione della “bolla AI” è una distorsione. Non stiamo assistendo a una corsa speculativa basata su promesse vuote. Stiamo osservando l’inizio di una transizione industriale sostenuta da capitali reali. Il CAPEX globale — cioè gli investimenti in infrastrutture, energia, tecnologia e produzione — è in piena espansione. Non riguarda solo la Silicon Valley o i semiconduttori: è un movimento sistemico.

JPMorgan ha annunciato piani per un trilione e mezzo di dollari in dieci anni, destinati a filiere strategiche come minerali critici, supply chain, infrastrutture e tecnologie di frontiera. È la più grande banca d’investimento americana a dirlo apertamente: la sicurezza economica passa dalla velocità e dalla resilienza, e la risposta non è la burocrazia ma l’investimento reale. È un segnale chiarissimo. Se il capitale intelligente si muove in quella direzione, non è un caso isolato, è la mappa del ciclo che viene.

Non è più (solo) una storia di tech o AI. È un’ondata di CAPEX sistemico — energia, difesa, manifattura, semiconduttori, infrastrutture — spinta dai colossi bancari stessi. JPMorgan è una delle banche più potenti e lucide del pianeta. Se loro stanno pianificando 1,5 trilioni di dollari di investimenti industriali, non è una notizia neutrale, è bullish per i mercati, per i ciclici e per l’economia reale.

Il debasement monetario e la crescita strutturale della liquidità globale sono la base macro di tutto questo.

Dal 2008 la liquidità mondiale è cresciuta in media dell’otto per cento l’anno. A questo va aggiunta un’inflazione che, anche nei periodi più “tranquilli”, resta intorno al tre per cento. Insieme producono un’erosione reale dell’undici per cento annuo del potere d’acquisto. Chi non riesce a generare almeno l’undici per cento di rendimento nominale, in realtà non sta guadagnando nulla. Sta solo mantenendo il passo di una moneta che si svaluta più velocemente di quanto non appaia. È la matematica della nuova era: la liquidità cresce più della produttività, e quindi tutto ciò che rappresenta un bene reale — azioni, infrastrutture, tecnologia, energia — si rivaluta nel tempo.

È questo il vero motivo per cui il mercato continua a salire. Non è euforia, è fisica monetaria. Quando l’offerta di moneta cresce dell’otto per cento annuo, anche gli asset nominali devono espandersi. E i multipli si alzano non perché gli utili esplodano, ma perché la base monetaria si diluisce. Durante un periodo di debasement, il “P” dei multipli sale più dell’“E”, e i rapporti P/E aumentano anche con utili stabili. È la logica conseguenza del sistema fiat. Chi la ignora continua a guardare i numeri del passato e a credere che il presente li stia tradendo, quando in realtà li sta semplicemente aggiornando.

La verità — se volessi essere provocatorio — è che le bolle non esistono.

Esistono solo cicli di debasement, cioè fasi di svalutazione monetaria che cambiano il metro di misura, non il valore reale degli asset.

E i cicli di debasement non terminano con un crollo dei prezzi, ma solo quando la liquidità globale si inverte in modo strutturale e prolungato. Oggi, quella inversione è lontana anni luce: il sistema continua a espandersi, non a contrarsi. Le banche centrali stanno rallentando il ritmo di rialzo dei tassi, e la massa di debito pubblico e privato che deve essere rifinanziata nei prossimi anni richiederà nuova liquidità. Non è una previsione, è una certezza matematica. La liquidità globale guida tutto: l’azionario, le crypto, l’oro, i ciclici. È il motore invisibile che regola il valore di ogni asset.

Chi pensa che “questa volta è diverso” si sbaglia due volte. La struttura del ciclo è sempre la stessa, ma le sue manifestazioni cambiano perché cambia la tecnologia che lo alimenta. Nel 1980 fu il personal computer, nel 1995 Internet, nel 2010 il mobile, nel 2020 l’intelligenza artificiale. Ogni volta lo stesso schema: scetticismo, adozione, accelerazione, consolidamento, euforia, crash, ripartenza. Siamo nella seconda fase, quella dell’adozione. Il resto deve ancora venire.

E quando capisci tutto questo, la domanda diventa inevitabile: che senso ha diversificare? O peggio ancora: che senso ha avere paura delle tensioni internazionali e restare fermi?

Il nostro compito è semplice: individuare le macro variabili più potenti della storia, quelle che muovono davvero i mercati. Se sono loro a dettare le regole del gioco, allora noi ci concetriamo e costruiamo su quelle.

Una volta identificate, la domanda successiva è ovvia: quali sono gli asset che voglio davvero possedere in portafoglio? Come posso massimizzare i miei rendimenti nel lungo periodo?

Il timing è l’unico elemento che possiamo davvero controllare: decidere quando e quanto entrare o uscire, perché è nell’esecuzione che un’idea diventa risultato. Gli utili seguono la crescita del PIL e il ciclo economico.

Ma se inflazione più svalutazione corrono all’11% annuo, il risultato è scontato: ogni anno chi resta fermo o guadagna meno dell’11% diventa più povero in termini reali.

Questo è il debasement strutturale: il valore reale della moneta si diluisce nel tempo. E gli asset di valore — azioni tech, crypto, oro, immobili — tendono a salire proprio in linea con questa diluizione.

Per questo insisto: il più grande rischio di questo decennio non è essere esposti, ma essere sottoinvestiti.

Non saranno le tensioni geopolitiche, né Trump o i dazi commerciali a determinare la ricchezza e i rendimenti di un portafoglio nei prossimi dieci anni.
Sarà invece la capacità di essere posizionati dalla parte giusta della storia, in coerenza con il ciclo economico e tecnologico in atto.

Tenere liquidità equivale quasi sempre a perdere potere d’acquisto. Restare long sugli asset, all’interno del giusto framework, è l’unico modo reale per proteggersi e beneficiare del debasement.

Da qui nasce il mantra:

“Don’t fight the tape, don’t fight the Fed — don’t fight the liquidity.”

“Don’t f*ck this up”

Il 29 settembre 2025, durante un webinar di oltre due ore riservato ai nostri clienti, abbiamo presentato questa slide insieme a tutti i dati macro che supportano la nostra tesi sul nuovo paradigma di allocazione 70/30 — 70% azionario americano e 30% crypto.

Abbiamo mostrato analisi esclusive, dati ufficiali e verificabili, che confermano con evidenza concreta ciò che viene descritto in questa newsletter: un cambiamento strutturale, non ciclico, dei mercati globali.

Abbiamo concluso con una frase che sintetizza il senso di tutto il lavoro:

“Il tuo compito non è indovinare i rimbalzi — è non rovinare tutto.” 

Quando parliamo di framework di lungo termine, non parliamo di previsioni giornaliere. Parliamo di un approccio fondato su analisi sociale, demografica, macroeconomica, storica e tecnica. È questo che ci permette di leggere i business cycle, capire come tutto si collega, dove si inserisce l’inflazione, come evolve il sentiment e — soprattutto — come allocare il capitale in modo razionale.

Ecco perché non è una follia pensare a un portafoglio composto per il 70% da azionario tech e per il 30% da crypto: perché se osservi il quadro complessivo, la logica è chiara. Sono questi i motori del ciclo attuale, i veicoli diretti della quarta rivoluzione industriale.

Seguire un framework come questo cambia radicalmente il modo di operare. Non ti sentirai più perso, né ossessionato dalle correzioni quotidiane. Non importa se una fase laterale finisce oggi o tra tre settimane: guardiamo il quadro più ampio, guardiamo il trend. 

Siamo nel mezzo della quarta rivoluzione industriale.

Ci muoviamo verso un mercato da 100 trilioni di dollari, e siamo solo al 4% del percorso. La sfida non è indovinare il prossimo rimbalzo: è non rovinare il viaggio.

Il tuo compito è semplice: non rovinare tutto. “Don’t f*ck this up” significa essere consapevole delle allocazioni, puntare sui player solidi, accettare la volatilità per ciò che è — il prezzo inevitabile dei rendimenti superiori all’11% annuo.

Ci saranno correzioni del 20–30%. È il costo del biglietto per la performance. Il vero rischio, oggi, non è il mercato. Il vero rischio sei tu.

È vendere tutto il portafoglio un venerdì pomeriggio per ansia, è perdere il controllo emotivo, è confondere il rumore con la direzione. Chi perde il controllo emotivo esce dal gioco. E rischia di perdere l’opportunità macro più grande della nostra era.

Noi la vediamo ogni giorno nei modelli. THÉMA, il nostro portafoglio di lungo termine, è a +55% in dieci mesi — e questo è solo l’inizio. R.A.P.T.OR., il nostro modello proprietario più tattico, continua a generare sovraperformance estrema proprio perché sfrutta la volatilità invece di subirla. Due strumenti diversi, ma complementari: uno cavalca la tendenza strutturale, l’altro cattura il battito tattico del mercato. Entrambi nascono dallo stesso presupposto: il ciclo non è finito. E chi resta fuori sta perdendo una delle opportunità più grandi di questa generazione.

Siamo dentro la quarta rivoluzione industriale, e non serve crederci per farne parte: basta non ignorarla.

Ogni rivoluzione si riconosce solo a posteriori, ma i dati sono lì per chi sa leggerli. La produttività cresce, i margini si espandono, il CAPEX accelera, la liquidità globale aumenta. Tutti gli ingredienti di un bull market strutturale sono presenti.

La vera domanda è un’altra: dove vuoi essere, tra dieci anni, quando questo ciclo sarà ricordato come l’inizio di una nuova era economica — e il più grande bull market dai tempi del 1999?

Ci sono momenti in cui restare fermi equivale a retrocedere. Oggi è uno di quelli. Il tempo dell’attesa è finito.

Non è più questione di capire se investire, ma con chi farlo e come farlo. E chi è con noi lo sa: non stiamo inseguendo il mercato, lo stiamo leggendo nella sua lingua. Perché chi conosce la storia non teme il futuro. Lo anticipa.

Se vuoi smettere di inseguire il mercato e iniziare a leggerlo con noi, contattaci.

Costruiamo portafogli che non reagiscono al rumore, ma si muovono con il ciclo.

Il momento di agire è adesso. Non quando tutti se ne accorgeranno.

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Nota: Il TPRI conduce ricerche e formula conclusioni operative per il proprio Portafoglio Tematico Tecnologico THÉMA . Le informazioni condivise con i lettori non garantiscono performance delle azioni né costituiscono consulenza finanziaria. È consigliabile consultare il proprio consulente finanziario prima di investire.Vi invitiamo a fare le vostre analisi prima di acquistare azioni delle società eventualmente citate nei nostri canali. 

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