La nuova guerra commerciale di Trump si configura quindi come un assalto al sistema commerciale globale. “L’accesso a beni a basso costo non rappresenta l’essenza del sogno americano”, ha dichiarato il Segretario al Tesoro Scott Bessent in un discorso del 6 marzo. Bessent ha criticato la politica che ha privilegiato il consumo di di massa di beni come gli “schermi piatti” anzichè creare posti di lavoro nelle fabbriche, sostenendo che questa scelta non abbia giovato alla classe media americana.
La sua analisi del sistema commerciale globale mette in relazione l’enorme deficit commerciale degli Stati Uniti con quelli del governo federale, considerandoli, in larga misura, due facce della stessa medaglia.
Gli Stati Uniti, in quanto principale nazione consumatrice con barriere commerciali e controlli sui capitali minimi, assorbono gran parte della produzione eccedentaria mondiale. Paesi come la Germania, e soprattutto la Cina, sovvenzionano i loro settori esportativi a scapito del consumo interno, secondo Pettis.
Parallelamente, l’eccessiva spesa americana per beni stranieri è stata resa possibile da nazioni che, producendo più del necessario, investono i loro risparmi in eccesso in asset statunitensi, come azioni e obbligazioni. Questo meccanismo ha portato a “un declino della manifattura americana” e a una compressione del risparmio interno negli Stati Uniti, tendenze che a loro volta alimentano “un deficit fiscale in continua crescita”. Bessent ha sottolineato come questo compromesso abbia favorito Wall Street, lasciando però Main Street – il cuore della classe media americana – a pagarne il prezzo. “Credo che sia arrivato il momento di Main Street”, ha concluso.
Lo stesso Segretario al Tesoro ha più volte sottolineato come il calo del rendimento del Treasury a 10 anni sia uno degli obbiettivi più importanti dell’amministrazione. Visto l’immobilismo della FED, la missione è stata portata a compimento proprio innescando panico e incertezza fra gli investitori, che hanno acquistato in massa i titoli del Tesoro U.S.A.
Questo si ricollega al concetto della dieta “detox” per scongiurare una crisi fiscale, causata da deficit pubblici eccessivi. Peter Navarro, consigliere commerciale senior della Casa Bianca, ha dichiarato a Fox News che le tariffe di Trump potrebbero generare 6 trilioni di dollari in un decennio, pari a 600 miliardi all’anno. Questo equivarrebbe all’1,9% del PIL nel 2025, rendendo le tariffe di Trump il più grande aumento fiscale dalla Seconda Guerra Mondiale.
La maggior parte delle entrate derivanti dalle tariffe dovrebbe servire a finanziare il rinnovo dei tagli fiscali del 2017 e l’introduzione di nuove riduzioni fiscali entro quest’anno. Dopo il dolore di breve termine potrebbe essere finalmente l’ora delle misure pro-crescita.
Nonostante sia innegabile il clima di paura che sta attanagliando i mercati azionari nel breve termine, penso che l’estremismo delle misure proposte indichi una forte probabilità che queste si rivelino, alla fine, di breve durata. I tassi reciproci calcolati dalla Casa Bianca sono così assurdi da sembrare una tattica negoziale, basati su una metodologia che riflette uno sforzo per imporre una leva negoziale piuttosto che realismo economico.
Questa strategia potrebbe rivelarsi efficace. Se osserviamo le prime reazioni, India e Israele si sono impegnati a tagliare le tariffe entro il 9 aprile, il Canada ha rilasciato dichiarazioni concilianti e la Corea del Sud ha annunciato l’intenzione di negoziare. Venerdì, Trump ha anche condiviso un messaggio su una “chiamata molto produttiva” con il presidente vietnamita Tô Lâm, leader di un paese che gli Stati Uniti avevano minacciato con tariffe del 46%.
Questi sviluppi rafforzano l’idea che le proposte tariffarie siano più un espediente negoziale che l’avvio di una guerra commerciale aperta fine a se stessa.